Rulli di tamburo
I governi asserviti alle dottrine neoliberiste ed al turbocapitalismo hanno fornito innumerevoli detonatori. La deadline è stata oltrepassata da tempo assicurando diritti illimitati alle rendite parassitarie, affibbiando alle masse l’immobilità sociale e la precarietà come stile di vita. L’inasprimento del conflitto sociale e lo scoppio di rivolte erano largamente prevedibili. Lo sdegno, di politici, sindacalisti e media, per la violenza manifestatasi nelle piazze è consuetudinaria ipocrisia. La ferocia dei padroni e degli esecutivi non fa quasi mai notizia. E’ nell’ordine delle cose mandare in malora l’agricoltura, affamare i pastori sardi e i contadini siciliani, affossare l’istruzione pubblica, delocalizzare aziende, licenziare, discriminare, escludere, finanziarizzare la vita delle persone, svendere patrimoni pubblici, partecipare alle imprese coloniali della Nato per poi scaricare tutto l’onere del debito “sovrano” sui cittadini più deboli. Il modello di sviluppo economico ha creato una società basata sull’ego e sul materialismo da cui provengono le mille storture che strizzano l’occhio alla corruzione, alla concentrazione della ricchezza, all’edonismo e ad ogni genere di crimine per il conseguimento veloce del successo personale. Nel volgere di pochi anni siamo giunti al totale trasferimento della ricchezza nei cieli dell’alta finanza, ai malfunzionamenti degli apparati statali e al rischio di fallimento degli Stati. Le attuali disuguaglianze sociali in Europa e nel Nord America ricordano quelle dei secoli scorsi, richiamano i tempi delle grandi insurrezioni popolari. La furia delle banlieues parigine, gli scontri di Atene, i saccheggi di Londra e la guerriglia di Roma mancano di un’attrezzatura politica, ma non si possono liquidare semplicemente come un turbine nichilista. Nel caos degli eventi che si succedono, un grande numero di oppressi forse non è in grado di concettualizzare e di chiarire, ma la violenza elementare non ha bisogno d’interpreti. Se si vuole discettare sull’idiozia di abbattere segnali stradali e ribaltare i cassonetti dell’immondizia, sulla foga demolitrice non “proficuamente” indirizzata, bisogna prima calarsi nelle condizioni concrete di milioni d’esistenze travolte dai meccanismi di esclusione neoliberisti. Certi eventi possono essere esecrabili, specialmente quando si hanno pancia e portafogli pieni, ma nessuno può far finta d’ignorare l’accumulo d’odio di quello che alcuni definiscono “proletariato metropolitano”. La precarietà strutturale, lo smantellamento dei servizi, lo sfruttamento, la razzia del lavoro, i soprusi, il percepirsi come materiale a perdere, l’impiego delle forze dell’ordine in supplenza della politica, non possono che esacerbare ancora di più gli animi. Chi sfoga la propria rabbia rubando in un negozio o sfondando una vetrina non dispone di schemi progettuali. Probabilmente non è in grado di decodificare l’esistente, ma sicuramente ha raggiunto la consapevolezza che i cortei organizzati con treni e torpedoni sindacali o quelli dell’arcipelago antagonista lasciano il tempo che trovano, che le periodiche passeggiate ai seggi elettorali, comunque si contrassegni la scheda, non spostano di una virgola l’operato dei governi. Politica, stampa e televisione, dimenticando il profondo malessere che attraversa il quotidiano della gente, fanno a gara nel liquidare i riots come criminali. Per nessuno è facile digerire l’incendio delle automobili di cittadini incolpevoli. Ci sono episodi che rendono labile la linea di demarcazione tra teppismo gratuito e rabbia antistituzionale , là dove forse il bersaglio improprio è solo il surrogato del nemico ben acquartierato nel Palazzo. Far vedere le statue di una chiesa infrante sull’asfalto muove l’opinione pubblica verso il rifiuto corale della violenza messa in atto dai dominati e la distoglie da quella esercitata dai dominanti dentro e fuori la legge. Le sofferenze profonde che la bancocrazia e l’economia globalizzata causano ovunque, senza far rumore, omertosamente ignorate dai media mainstream, sono sotto gli occhi di tutti: alto tasso di disoccupazione, ribasso dei salari, inflazione, aumenti del prezzo dei cibi, tagli al welfare ed austerità generale. Eppure tutto questo passa in secondo piano e nessun commentatore televisivo si sofferma sul fatto che la partecipazione ad una sommossa significa mettere in pericolo se stesso, la propria integrità fisica ed il certificato del casellario giudiziario. Solo l’esasperazione, l’irrealizzabilità di una comunicazione alternativa, l’inutilità delle parole fino a quel momento rivolte a delle grandi canaglie, possono spingere a spaccare tutto nella certezza di venire prima o poi sconfitto. La ribellione agita fuori dai rituali canonici stabiliti dalle democrazie, con il “qui e adesso”, è un qualcosa d’insondabile che inneggia semplicemente alla fine di quell’impianto istituzionale che percepisce “contro”. Arde di un fuoco scoppiettante, insidioso e brutale. Senza abbandonarci a disamine ideologiche possiamo lecitamente credere che qualunque rivolta, di ieri o di oggi, abbia invocato ed invochi solo “giustizia”. L’immagine dei luddisti trasmessa da molti testi è quella di una caotica orda di contadini illetterati che volevano ostacolare il progresso. Ancora oggi sono guardati con sufficienza dagli storici per aver rifuggito il potere ed essersi semplicemente prefissi di ostacolare la dinamica dell’industrializzazione spinta. Decretata la fine delle ideologie, le rivolte sospendono il divenire e segnano il trionfo del presente. Spesso sono una vera e propria manna per consentire ai “signori” e ai loro domestici d’invocare leggi speciali trasversalmente condivise. Il vezzo della repressione nei confronti di chi non piega le ginocchia è una costante storica. Vale la pena di ricordare che l’Ue dei banchieri si è premurata di costituire una superpolizia (Eurogendfor) e l’Italia non si è sottratta alla chiamata. Il 14/5/2010 la Camera dei Deputati ha ratificato l’accordo di Vessen: presenti 443, votanti 442, astenuti 1; hanno votato sì 442. Poco dopo anche il Senato ha dato il via libera al trattato. A prescindere dalla consapevolezza dei “delinquenti” che mettono fuori uso qualche postamat, con buona pace dell’indimenticabile Mario Monicelli, sensibilmente amareggiato per l’irreversibile devastazione del Paese, pochi aspettano e sono ancora meno quelli che lavorano per il compimento di un processo rivoluzionario. Anche se a volte interi secoli esplodono in un solo giorno non bisogna dimenticare che le rivoluzioni necessitano di tutti quei mezzi attualmente nelle mani della global élite. E poi quali cambiamenti può portare una rivoluzione? E’ bene ricordare che la Rivoluzione Bolscevica ha partorito lo Stalinismo e la conclusione di quella francese ha prodotto l’enorme arricchimento di un’ottantina di famiglie borghesi. Quando il popolo si mette in marcia c’è sempre qualcuno che viene messo alla sua testa o che ne sfrutta il potenziale per indirizzarlo ed aspettarlo là dove vuole che arrivi. Fuori della scena ci sono sempre invisibili impresari pronti a passare all’incasso. Persino la buona fede degli “indignati” nelle piazze di mezzo mondo sembra prossima ad essere incanalata per rivoli secondari. Senza rinnegare la necessità di combattere anche frontalmente il vangelo neoliberista, il sistema del signoraggio privato e del dominio globale dei banchieri sull’uomo, vanno esplorate anche altre vie. Contro coloro che dispongono della massima potenza militare, poliziesca e fiscale, che usufruiscono di molteplici servizi d’intelligence, che orientano i maggiori media, che hanno il controllo informatico della società, che tengono governi e partiti sul libro paga, può essere esperita la strada della non collaborazione. Oltre che vagheggiare un mondo senza sovrani e senza padroni ci si può decondizionare, ricostruire se stessi, attivare resistenze al potere non strutturate, inventare paletti da infilare negli ingranaggi del sistema, assumere un complesso valoriale antagonista del pensiero unico, riscoprire il piacere e l’utilità di interagire con gli altri dando senso alla propria vita, possibilmente in comunità autarchiche.
Antonio Bertinelli 17/10/2011