vecchi pensieri 64 (Deficit di rappresentanza)

Deficit di rappresentanza

I discorsi altisonanti di questi giorni mal si conciliano con la storiografia delle vicende precedenti e susseguenti l’unità d’Italia. Da sempre si glissa sui saccheggi e sulle violenze di alcuni garibaldini; si tace sulle sanguinose repressioni siciliane di Biancavilla, di Cesarò, di Randazzo, di Maletto e di Bronte, dove per mano di Nino Bixio si è compiuta una strage; si stende una coltre di silenzio sulle decine di migliaia di morti che in Campania si opposero all’occupazione piemontese e sui crimini perpetrati dall’esercito sabaudo. Il passato dell’Italia, prima scissa in regni e signorie, poi unita definitivamente nel 1870, quel passato che non indulge alla retorica, contribuisce a spiegare l’atavica sfiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, i modi di arrangiarsi per difendersi dai suoi sgherri e dalla sue angherie, la diffusa predisposizione dei grimpeurs ad uscire in fretta dalle fila dei vinti. Nel Paese delle camarille e delle cordate, dove i demeriti non sono affatto un handicap, ci si colloca prevalentemente per chiamata diretta. Per quanto il concetto di meritocrazia vada preso con le molle se non consente a tutti di affrancarsi dall’ineguaglianza e dalla limitatezza delle opportunità, bisogna riconoscere che, prescindendo dal possesso di particolari doti, non potrà mai nascere un’appropriata classe di policy makers, di leaders, di managers della Pubblica Amministrazione e persino di azionisti capaci di guidare le imprese di famiglia. Quasi ovunque, e segnatamente in ambito politico, l’accesso è regolato per cooptazione. Un costume che, se da una parte assicura la continuità delle linee di comando e delle solite compagnie di giro, dall’altra blocca il ricambio delle élites dirigenziali, fa mancare aria alle nuove idee ed impedisce qualunque forma di evoluzione. Va inquadrato in questa logica anche il “sabotaggio” delle primarie nello statuto del Pd, che causa il cruccio della base e per cui, da alcuni giorni, si duole sul blog Alessandro Gilioli, arrivando a definire doroteo lo statement di Pierluigi Bersani. Vorremo ricordare a tutti quelli che pungolano i capi di un partito liquido, comunque lontano dalle aspettative dei suoi simpatizzanti, che un sistema di traguardi e di valutazioni oggettive, misurabili, paragonabili ed equiparate non è funzionale ad un aggregato politico migrante verso una qualunque forma di potere. Chi guida più o meno palesemente la navigazione del Pd non è sicuramente un minus habens. Conosce perfettamente l’architettura istituzionale e sa bene che, offrendo i suoi servigi per riorganizzare i poteri fondamentali dello Stato, così come pretende il monarca, contribuisce fattivamente al crollo dell’intero edificio. Chi briga dietro le quinte non si cura più di dissimulare la montatura cinematografica con cui ha ingannato per anni l’elettorato. Ritiene che, per rimanere in sella, debba ostacolare ogni forma di trasparenza e modellarsi sul magma caotico che da molto tempo attanaglia l’Italia. Nessun evento sembra utile per unire le forze dell’opposizione e lo stato generale dei media, mai scaduto a livelli così infimi, contribuisce a tenere sotto anestesia gli Italiani. Qualche giorno fa si è concluso a Palermo il processo Hiram, che ha visto coinvolti colletti bianchi, mafiosi, massoni e faccendieri interconnessi, tra l’altro, anche per pilotare determinati procedimenti in Cassazione. Storia con poche luci e molte ombre praticamente ignorata da tutti i giornali. Gioacchino Genchi, gia brillante funzionario di Polizia, stritolato oggi da un ingranaggio messo in moto dopo le dirompenti inchieste avviate da Luigi De Magistris, conduce solitariamente una battaglia contro coloro che hanno in spregio lo Stato di Diritto. Il poderoso lavoro (confluito in ottocento faldoni) svolto dal procuratore Agostino Cordova con le indagini di “mani segrete” è finito a suo tempo nel nulla. Sono note le recenti traversie dell’inchiesta “why not”. Grembiuli e compassi, simboli di arti e mestieri ormai desueti, spuntano periodicamente in tutte quelle confuse storie giudiziali che riguardano accordi o affari definiti con il partenariato di mafie, servizi segreti e grand commis. Il filo conduttore che collega pezzi di Stato e poteri oscuri non ha mai conosciuto soluzioni di continuità. Anche le vicissitudini di Ferdinando Imposimato, costretto a lasciare la Magistratura insieme alle inchieste sulla banda della Magliana e sulla strage di via Fani, sono a confermarlo. La corruzione dei governi, le intercettazioni abusive e i ricatti fondati sulle fragilità personali sono una costante nella vita politica ed economica italiana. In questo ultimo quindicennio si sono perfezionati gli strumenti ed è aumentata la spregiudicatezza. Gli ex “compagni” che hanno imparato presto a veleggiare tra le pericolose secche del potere senza arenarsi non amano la democrazia partecipata. Sanno bene che le elezioni primarie della dirigenza, così come la revisione del “porcellum” elettorale, possono mettere in discussione qualunque leadership. Se non ci si sente sicuri, e dubitiamo che i trascorsi di certi personaggi possano contribuire a rassicurarli, è meglio non rischiare l’avvento del nuovo. Bersani, prevedibile latore di un déjà vu, prigioniero di un apparato arrugginito, non può cedere al sentimentalismo e così finisce per entrare nei panni della Sibilla.

Antonio Bertinelli 13/5/2010

Pubblicato da antoniobertinelli

Melius cavere quam pavere

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