La classe operaia non va in paradiso
Il pesce pilota appartiene alla famiglia dei carangidi e spesso nuota al fianco degli squali. In passato si credeva che avesse il compito di guidarli nei loro percorsi. Oggi si ritiene che il suo comportamento sia un caso di commensalismo, una particolare associazione simbiontica che consiste nell’utilizzazione comune delle stesse prede. Il naucrates ductor della realtà industrial-finanziaria italiana sembra essere diventato l’uomo dell’anno 2010. Sergio Marchionne, come tale elogiato dal “Il Sole 24 Ore”, sostenuto dal coro quasi unanime dei politici e dei sindacalisti “gialli”, è quanto mai determinato ad imporre il suo gioco. Legati a doppio filo per affinità e finalità, spartendosi potere, favori, colpe e perfidie, non è difficile capire le ragioni di un simile sodalizio fra soggetti solo nominalmente eterogenei. Quando si spezza la relazione tra la funzione economica e la funzione sociale, quando si rompe l’equilibrio tra il capitale e la forza lavoro, quando si calpestano i valori ispirati al bene comune, ci sono ancora mille e un modo per fare impresa, tutti più o meno adatti per massimizzare esclusivamente i profitti dei furbi. Basta andare con il pensiero all’”omicidio industriale” della Olivetti, la cui fine non può essere spiegata facendo riferimento, sic et simpliciter, alla vorticosa competizione internazionale. Qualche mese dopo l’insediamento di Carlo De Benedetti tutti i dipendenti furono messi, e per la prima volta, in cassa integrazione. Allo scadere della medesima, avvalendosi di contributi statali, la produzione fu spostata al Sud, dove si consumò un crollo aziendale unico per rapidità e violenza. Quel vulnus brucia ancora negli ambienti dove si continua a perorare la dovuta responsabilità sociale dell’impresa. Factum infectum fieri non potest ed oggi le pratiche manageriali sono ormai plasmati su imperativi lontani dal senso della comunità che guidava Adriano Olivetti, icona del “capitalismo dal volto umano”. E’ naturale che Sergio Marchionne, director della Philip Morris ed amministratore delegato della Fiat, dopo le ola delle tute blù di Detroit, venga osannato dagli annuitori nazionali di stretta osservanza globalista, da sinistra a destra, da D’Alema a Sacconi, da Fassino a Bonanni, da Chiamparino ai falchi di Confindustria. In Germania il manager Fiat, interessato ad allearsi con l’Opel, si è poi fermato davanti ad alcune richieste: capitale proprio, liquidità, mantenimento delle fabbriche e dei posti di lavoro nel Paese, sostegno agli sviluppi tecnologici. In questa sede il suo disegno di costituire una casa automobilistica globale con i soldi dei contribuenti, tagliando novemila posti di lavoro, non ha trovato sostenitori. In Italia può permettersi di dettare legge. La filosofia del “più è grande e meglio è” ha già fallito in passato con General Motors e con DaimlerChrysler, sta fallendo con Toyota. Ovviamente tutto questo a Marchionne non può interessare di meno. Per adesso ha fatto breccia oltreoceano ed ha trovato numerosi corifei nel Belpaese, ma va ribadito, grazie alla stessa ammissione dell’a.d., che il costo del lavoro incide solo per il 7/8 % su quelli totali. E’ altrettanto pretestuoso invocare la bassa produttività degli stabilimenti italiani, che non può essere imputata agli operai “fannulloni”, ma dipende soprattutto dal crollo delle vendite, dai tipi di auto in produzione, dall’obsolescenza tecnologica, dalla saturazione degli impianti e dal carico fiscale. Se la globalizzazione ha reso il mondo piatto e dunque gli Italiani non possono pretendere trattamenti speciali va anche spiegato il perché. Le classi economicamente dominanti, quelle stesse che hanno imposto la mondializzazione e causato la crisi, intendono avvalersi della stessa per peggiorare le condizioni di vita, di studio, di lavoro di tutti i settori più deboli delle società occidentali. I nuovi assunti nell’industria automobilistica statunitense vengono pagati quattordici dollari l’ora, dai quali vanno tolte le tasse ed una quota mensile per l’assicurazione sanitaria, che copre solo metà delle spese mediche oltre i tremilacinquecento dollari. Non hanno diritto ad alcuna pensione d’anzianità, ma solo a trattamenti basati sui versamenti individuali, con esigui contributi aziendali. Hanno il divieto di scioperare fino al 2015 e sono stati costretti a rinunciare agli aumenti di contingenza. I buoni sentimenti che infarciscono i discorsi della claque filomarchionnista, simili a quelli di Pietro Ichino, senatore del Pd, sono molto meno facili da trovare in fabbrica. Secondo l’Onu, labour is not a commodity eppure accade che il modulo Marchionne, quello che pretende in quel di Mirafiori il 51% dei consensi per restare a produrre in Italia, si presenti sostanzialmente come un ricatto senza possibilità di mediazioni. I padroni si fanno sempre più padroni ed i servi debbono farsi addirittura schiavi. L’unico baluardo rimasto a difendere il vacillante sistema industriale italiano, in ultimo dal colpo di coda del pesce pilota “Born in the Usa”, è quello della Fiom. Quando Giulio Tremonti asserisce che “L’ideale è avere tanto la fabbrica perfetta quanto i diritti perfetti. Il reale è un po’ diverso. Ed è reale il rischio che si conservino i diritti, ma si perda la fabbrica, emigrata altrove”, ci sembra ancor più necessario che le rivendicazioni studentesche si saldino con quelle operaie, che l’Ue degli oligarchi inizi a riconoscere e a correggere i suoi insopportabili limiti.
Antonio Bertinelli 5/1/2011